pescatore di storie

La banda degli scemi

La banda degli scemi

Antonio beveva la sua birra tranquillo, come se aspettasse qualcuno o qualcosa. Ma era e sarebbe rimasto solo, l’ho capito poco dopo.

Mi sembrava assurdo parlare e scherzare allegramente quando c’era qualcuno visibilmente a secco di compagnia. Così gli ho chiesto di spostarsi, ché mi seccava parlare davanti a qualcuno a secco di compagnia. Poi ho sorriso; non sono certo l’avesse capita.
Iniziamo a chiacchierare. Si vedeva che ne avesse una gran voglia.

Dopo dieci minuti ho preso a registrarlo in segreto.
Sì, lo so, non si fa. Giuro, era la prima volta che registravo uno sconosciuto. Ma credo lo rifarò. Perché era interessante, umanamente parlando intendo. E ciò che è interessante, salvo opportune e sacrosante eccezioni, e nel rispetto dell’interlocutore, merita di essere raccontato. Perché fa bene, dai. Abbiamo bisogno di storie che ci tirano su, o che ci riportano coi piedi per terra. Restituire una dimensione più umana al tempo che viviamo: stronzate così.

Ad ogni modo Antonio, che in realtà si chiama Marco ma per motivi di anonimato non lo dirò, era un tipo interessante.
Era di Matera, o Potenza, o Isernia, non ricordo. Quando qualcuno dice di essere lucano o molisano, chissà perché, spegniamo tutti il cervello. Io in genere mi preparo le domande successive, oppure ripenso al gol di Batistuta sotto la Sud in Roma-Fiorentina.

Dicevo, un tipo interessante. Ha lasciato gli studi in scienze forestali e si è messo a fare il barista sottopagato dalle sue parti. Ma non funzionava, e alla fine si è trasferito nel famoso nord-est, quello dove il lavoro te lo tirano appresso. Oggi Antonio, fondamentalmente, scarica e carica camion. Oplà, braccia e schiena: una, dieci, cento o mille volte a notte. Sì, perché quel fortunello di Antonio lavora di notte, sei notti su sette, ogni settimana.

Antonio è in Veneto da alcuni mesi e non conosce nessuno. Gli dico che poteva anche andare peggio, che avrebbe potuto lavorare di notte in una città veneta senza conoscere nessuno. Non ride, inizio a pensare che Antonio non apprezzi troppo l’ironia.

Eppure il sabato sera, ironia o no, lui esce. Sempre solo, s’intende, si siede con una birra e osserva il mondo socializzare. Ché la voglia di svagarsi dagli affanni no, quella non gliela può togliere nessuno.

Gli ho chiesto cosa sognasse. Adoro questa domanda, la faccio spesso. Perché ho capito che vaghiamo tutti con qualche dolore gigante e un paio di sogni. Per scoprire i primi occorre delicatezza e il momento opportuno; invece per i secondi, i desideri, basta un attimo: gli occhi ci si illuminano subito.
Correre con le macchine e fare le gare, mi risponde Antonio. Un po’ tamarro, penso tra me e me.
Un po’ tamarro, gli dico. Sorride, almeno questa l’ha capita.

Poi accade una cosa imprevista. Inizia da solo a raccontarmi delle difficoltà. Perché poi è dei primi che vorremmo parlare, dei nostri dolori, delle zoppie. Claudicante Antonio lo è per davvero, si trascina la gamba a causa di un vecchio incidente in macchina. Ci tiene a mostrarmi che è vero. Mi chiedo perché mai avrei dovuto dubitarne.

È un fiume in piena. Mi parla dell’invidia mista a orgoglio per la sorella che studia all’estero. Lei che riuscirà a fare grandi cose, dice, e che ci riuscirà anche grazie a un suo consistente aiuto economico. Racconta poi della difficoltà di ambientarsi in un posto freddo e diffidente, della fatica del lavoro. Venti minuti di conversazione e due birre più tardi, ci salutiamo.

Vorrei abbracciarlo. Dirgli che è finita, che finalmente ha un amico. Che quello è il suo giorno fortunato perché io sono un famoso imprenditore lucano e che ha chiuso a spaccarsi la schiena ogni notte. Da domani si torna al sole lucano, amico mio, torniamo a casa.

Bevo un ultimo sorso di birra, lo saluto e me ne vado. La prossima volta gliele dico tutte queste cose, promesso. Ma intanto, il massimo che posso fare per lui è dedicargli un pensiero.

Così questa sera ho riascoltato la nostra conversazione.
L’ho fatto per lui. E perché sono sfigato e non avevo di meglio da fare.

Siamo tutti sfigati, diciamocelo. Come e più di Antonio.
Inadeguati: alla vita, al confronto sociale, al lavoro, agli altri (Dio quanto siamo inadeguati al rapporto col prossimo), a coloro da cui siamo attratti.
Siamo persino inadatti ad ascoltare il nostro corpo. Ché quello, puntualmente, quando meno te l’aspetti ti saluta, ti dice bello mio, bella mia, adesso basta però. E giù d’insonnia, giù di sfogo cutaneo, di febbre, crisi d’ansia o quello che sia.

Trascorriamo allora metà del nostro tempo a fingere o a nasconderci, e l’altra metà a desiderare di essere altro.
Dura così, però.

E tuttavia, non a caso, trovo che la razza degli sfigati includa i personaggi più belli delle storie. Come la famiglia di Little Miss Sunshine o il protagonista del Grande Lebowsky; gente triste e inadeguata che però ha qualcosa da dire: magari una sua etica, una propria dignità.

E quasi sempre c’è di mezzo l’ironia. Ci salva tutti, noi così goffi e imperfetti.
Ecco, abbiamo un bisogno immenso di eroi del genere. Che non fanno un cazzo. Che perdono ma ne ridono. Anche se non capiscono l’ironia, come Antonio.

Allora me ne vado a dormire ripensando a quel ragazzo che nonostante tutto, lui la birra, il sabato sera, fanculo il mondo, sì, lui se la concede.
Come i signori: fottersene, brindare; giocare a darli noi gli schiaffi alla sorte.

Una massa sfigata di eroi. Claudicanti, goffi, inadatti.
I migliori.