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Storia delle locandine dei Mondiali di calcio

Storia delle locandine dei Mondiali di calcio

 

La versione integrale di un mio articolo uscito su la Repubblica SERA del 23 giugno 2014

 

 

In principio fu l’Uruguay.

Guillermo Laborde vinse il primo premio al concorso organizzato dalla Commissione del Centenario per festeggiare i cento anni dalla promulgazione della prima costituzione uruguagia. Un disegno essenziale: la sagoma curva di un portiere che vola a togliere il pallone dall’incrocio dei pali. Era il 1930.

Uruguay 1930

Da allora, i mondiali di calcio sono stati accompagnati, in ogni edizione, dalla creazione di locandine ufficiali che

ne hanno fatta la storia e che, proprio dalla storia delle relazioni tra nazioni, sono state segnate. Dall’imponenza del manifesto di Francia 1938 alla stravaganza di Mirò in Spagna ’82. Riviviamole assieme.

 

All’epoca Laborde aveva 43 anni ed era un pittore molto conosciuto in patria. Dopo il diploma al Circolo di Belle Arti di Montevideo, partì per la volta dell’Europa dove, tra Italia, Spagna e Francia si formò il suo stile. Tra i tratti peculiari ricordiamo i colori brillanti, la pittura essenziale e una forte ricerca della luce. Tutte caratteristiche che ritroviamo nella locandina di Uruguay 1930, prima edizione dei mondiali di calcio.

La Fifa discusse a lungo sulla sede dove disputare il torneo. Alla fine, la spuntò proprio l’Uruguay, forte della ricorrenza del giuramento della costituzione del 18 luglio 1830 e delle notevoli risorse messe a disposizione dal governo uruguagio per pagare la trasferta a tutte le squadre. Un dettaglio non da poco per l’epoca.

Fecero le cose in grande a Montevideo: costruirono un nuovo stadio e indissero un concorso per realizzare il manifesto ufficiale dell’iniziativa. Una tradizione, quella di realizzare locandine per i mondiali, ancora oggi in vigore.

L’opera di Laborde si aggiudicò il primo premio (e, a dire il vero, ottenne anche il terzo con un’altra). In un certo senso, il lavoro di Laborde fece scuola e fu ripreso dai manifesti di molte edizioni. A partire dalla successiva.

 

Italia 1934

Era il 1934 e in Italia il fascismo era all’apice del suo potere. La spinta nazionalista del regime italiano era palpabile anche nella comunicazione, che divenne da subito un caratteristica fondamentale della dittatura. Si narra che fu Mussolini in persona a incaricare Gino Boccasile. Gi Bi, così amava firmarsi, è stato uno degli illustratori nostrani più importanti della prima metà del secolo. Una storia difficile la sua. Perse un occhio a soli dodici anni per un banale incidente domestico ma, senza buttarsi giù, proseguì gli studi artistici. Ha firmato un gran numero di manifesti dello sviluppo industriale italiano, dalle copertine per la Fiera del Levante di Bari ai lavori per molte agenzie di pubblicità. Molte delle icone del fascismo, per il quale manifestava apertamente simpatia, sono state da lui realizzate. Proprio tale appoggio alla cultura fascista, in particolare la sua firma al Manifesto della Razza in occasione delle leggi razziali del 1938 e i lavori al servizio della Repubblica di Salò, gli resero la vita impossibile a partire dal dopoguerra.

Fu accusato di collaborazionismo e incarcerato. Da allora faticò a trovare altri lavori. Morì nel 1952, diciotto anni e una guerra mondiale dopo la locandina di Italia ‘34.

 

Il poster, nello stile Bauhaus censurato in Germania da Hitler ma ripreso da mezza Europa, raffigura un calciatore che si prepara a impattare il pallone per il tiro. Le scritte occupano quasi metà pagina. In basso a sinistra, accanto alle sigle della Fifa e della Figc, appare la scritta “Italia A. XII” sopra un quasi impercettibile fascio littorio, a ricordare i dodici anni dalla Marcia su Roma.

Bocassile fu protagonista anche dell’altra vignetta dei mondiali, quella non ufficiale che ritrae un calciatore azzurro con il saluto romano.

 

 

Francia 1930

Erano anni in cui i rapporti tra stati vivevano una fase assai complicata: le sofferenze della Prima Guerra Mondiale, il fallimento dei tentativi di dialogo della Società delle Nazioni e il riarmo di mezza Europa.

Il manifesto dell’edizione successiva dei mondiali, Francia 1938, ne fu la riprova. Henry Desmé, l’autore, sembra rappresentare fedelmente gli umori dell’epoca. Il calciatore, ripreso solo dalla vita in giù, blocca un pallone adagiato sul mondo, vero soggetto dell’immagine. I toni sono dorati e il messaggio che manda, in pieno stile da propaganda bellica, evoca la conquista del pianeta. Poco più di quattrocento giorni più tardi, la Germania invade la Polonia e scoppia la Seconda Guerra Mondiale.

 

Esiste una relazione sottile tra cultura, sport e storia che accompagna la realizzazione di ogni locandina dei mondiali. La scelta del soggetto, i colori e gli stili utilizzati sono di volta in volta espressione di un mondo sull’orlo della crisi, di un desiderio di pace o della voglia di una nazione di essere protagonista. I mondiali di calcio, si sa, sono una manifestazione ambita. Ambita è la vittoria finale e ancor più bramata è la designazione come paese ospitante. Non si perde o si vince semplicemente un trofeo, si gioca davanti a un numero incredibile di spettatori. I mondiali sono una vetrina e in ballo c’è il prestigio internazionale. Tanto più che protagoniste possono diventare nazioni tagliate fuori dalla scena politica globale. È il caso di Brasile 1950.

Brasile 1950

La Seconda Guerra Mondiale è terminata da cinque anni e la prassi della cooperazione tra stati ottiene una nuova spinta sotto la creazione delle Nazioni Unite. Linfa fresca per le speranze di dialogo, pace e prosperità economica. C’è da voltare pagina e non a caso viene scelto nuovamente il Sud America come sede per la manifestazione. Il Brasile a farne da padrona.

Sono gli anni della Guerra Fredda, ma non solo. Inizia il periodo del neocolonialismo economico, in cui le grandi multinazionali occidentali muovono i propri affari verso i paesi più poveri del sud del mondo. Non fu quindi un caso che il concorso per la scelta della locandina venne indetto da una compagnia petrolifera, la Shell Petroleum. Il vincitore, un certo J. Ney, fece un buon lavoro: l’immagine, molto semplice nella composizione (un calzettone, lo scarpino e un pallone), richiama il ritrovato clima di pace. Salta all’occhio il calzettone del giocatore, protagonista della locandina, composto dalle bandiere dei paesi partecipanti.

In secondo piano, sullo sfondo, appare quasi impercettibile la bandiera brasiliana. Lo spirito del gioco torna così al centro dell’iconografia di un mondiale.

 

Svizzera 1954

Quattro anni più tardi è il turno della Svizzera a ospitare la competizione. Dopo tre edizioni, il portiere è nuovamente il protagonista della locandina, come per Uruguay 1930. A differenza di allora, però, il portiere non arriva sul pallone e si volta indietro, ancora in tuffo, vedendolo entrare in rete.

Il bianco della divisa richiama il colore della pace e della neutralità. Il pallone simboleggia il sole e, il portiere, una colomba che vola in cielo in segno di pace, come secondo la tradizione iconografica cristiana. Ancora una volta, il richiamo all’attualità e alla storia – in questo caso il protrarsi di un periodo in assenza di conflitti bellici – è forte ed esplicito. Proprio come nell’edizione di Svezia 1958. Il tema della pace tra le nazioni, infatti, è troppo sentito in Europa per non insistere su questa strada. Ma l’aspetto creativo non ne viene sacrificato. Il merito è del disegnatore americano Saul Bass, famosissimo nel mondo del cinema e protagonista di una serie infinita di manifesti, tra cui anche quello dei giochi olimpici di Los Angeles nel 1974.

Svezia 1958

Il poster ritrae un giocatore interamente coperto dall’ombra del pallone da lui stesso calciato in alto. Assieme alla sfera, si vede sventolare un fascio unico di bandiere, una attaccata all’altra, per richiamare il già citato clima di pace.

Sotto il calciatore, all’interno dell’ombra del pallone, appare il nome del trofeo in palio: la Coppa Rimet, rinominata così nel 1946 in onore del presidente della Fifa Jules Rimet che concepì e organizzò i primi mondiali di calcio. La Rimet verrà poi tolta dalla circolazione nel 1970, a seguito della triplice vittoria di un mondiale da parte del Brasile, e sostituita dall’ancora oggi in vigore Coppa del Mondo Fifa.

 

Sud America-Europa, Europa-Sud America: come in una partita di tennis, l’organizzazione della massima manifestazione calcistica rimbalza da una parte all’altra dell’Atlantico, secondo un principio di alternanza. Dopo due edizioni consecutive disputate nel vecchio continente, la scelta del paese ospitante ricade nuovamente su una nazione latinoamericana. Quando fu designata la sede per i mondiali di Cile 1962, vi furono diversi malumori per tutto il globo. Da una parte l’Argentina, la grande favorita per la scelta, ci rimase parecchio male nel vedersi scippare la designazione all’ultimo (colpa anche dell’ostruzionismo esercitato dai cugini brasiliani). Dall’altra, i paesi europei non mandavano giù l’idea di disputare la competizione in un paese ancora molto sottosviluppato e considerato non in grado di ospitare un mondiale. A parte qualche match ricco di falli e decisioni arbitrali contestate, l’organizzazione di Cile 1962 non solo filò liscia, ma produsse quello che per molti rimane il manifesto più bello che sia mai stato realizzato per un mondiale di calcio.

 

Cile 1962

Il governo cileno incaricò lo scultore Galvarino Ponce Morel. Come per Guillermo Laborde, il destino di Galvarino Ponce passa per l’Italia, dove intraprende la carriera diplomatica, affiancandola a quella artistica. Produce opere sofisticate e intelligenti, Galvarino, come ad esempio la locandina dei mondiali cileni.

Per la prima volta sparisce un calciatore dal manifesto dei mondiali e non appaiono nemmeno le – ormai scontate – bandierine dei paesi partecipanti. La sua è una scelta essenziale ma vincente. Sullo sfondo azzurrino, in alto a sinistra, un pallone compie un’orbita attorno al mondo. I continenti colorati in nero e gli oceani tra il bianco e un impercettibile azzurro: anche il pianeta, visto così, ricorda vagamente una palla da calcio. Inoltre, per rispondere ai tanti che schernivano la nazione sudamericana, chiedendosi dove fosse situata, Ponce ne risalta leggermente la posizione, colorandola con lo stesso marrone del pallone. Una rivincita elegante e degna di rimanere nella storia.

 

Inghilterra 1966

Finita l’epoca dell’imperialismo e quella dell’urgenza di promuovere la pace tra i popoli, in Europa si torna a respirare un’aria migliore. Le economie dei paesi sono in crescita e inizia un periodo di longeva tranquillità, almeno nel blocco europeo occidentale. Il manifesto dei mondiali di Inghilterra 1966 sono il prodotto di una ritrovata serenità. I britannici sfidano la tradizione iconografica dei mondiali e introducono per la prima volta un personaggio inanimato.

 

Per il terzo mondiale consecutivo osserviamo un pallone in aria, questa volta lanciato da un leone. L’animale è l’emblema della squadra inglese a partire da Inghilterra – Scozia del 1872, primo match ufficiale tra due nazionali di calcio. L’utilizzo del simbolo del leone ha una lunga tradizione storica e trae origine dal tentativo di molti governanti di utilizzare un’icona in grado di evocare forza e di accostarla alla figura del re. Gli inglesi più di altri, però, furono soliti esportare tale immagine nel mondo. Per questo i tre leoni divennero presto il simbolo della nazionale di calcio inglese. Lo sa bene, tra gli altri, anche Carvosso, l’autore della locandina dei mondiali. World Cup Willie, il leoncino sorridente ritratto dall’artista, indossa una divisa inglese ed è il protagonista assoluto dell’immagine. Il pallone, che pure appare, sembra quasi essere parte della scritta “world cup”. A suo modo, anche tale manifesto farà scuola nell’iconografia legata al mondo del calcio, favorendo la diffusione in tutto il globo di mascotte ritratte in poster, figurine e quant’altro. Nascevano così le mascotte ufficiali dei mondiali di calcio: personaggi come Gauchito Mundialito (Argentina 1978), il gallo Footix (Francia 1998) e il nostro indimenticabile Ciao (Italia 1990). Carvosso realizza anche un’altra locandina dei mondiali, più sobria, in cui il leone Willie cede il posto a una coccarda composta da una sfera e le bandiere delle nazioni.

 

Messico 1970

Quattro anni più tardi i mondiali di calcio sbarcano in Centro America, precisamente in Messico. Si tratta della manifestazione con la locandina più semplice di sempre. Ma coincidenza vuole che sia anche una manifestazione ricca di eventi storici per il mondo del calcio: la semifinale Italia–Germania 4-3, una delle partite più belle di sempre, con tanto di targa commemorativa poi affissa fuori dallo stadio Azteca, sede dell’incontro (che definirà il match “partido del siglo”). Sarà anche l’edizione che vedrà per la prima volta un elevatissimo numero di persone collegate alla televisione per assistere ad una partita di calcio. I mondiali vinti per la terza volta dal Brasile, che si aggiudicherà definitivamente la Coppa Jules Rimet, lasciando il posto alla nuova Coppa del Mondo Fifa, quella oggi ancora in vigore.

Infine, sarà il mondiale che produrrà l’icona moderna del pallone da calcio, la sfera bianca con poligoni neri. Proprio quel pallone che, guarda caso, è ritratto nel manifesto del mondiale.

 

Si tratta proprio di lui, del Telstar, la palla che siamo soliti disegnare sin da bambini e che, nell’immaginario collettivo, è il simbolo di un pallone da calcio. Prodotto dall’Adidas, il Telstar è composto da venti esagoni bianchi e dodici pentagoni neri. Il nome e la forma traggono origine dal satellite lanciato nel 1960 per collegare le trasmissioni televisive tra Europa e America. La locandina, molto essenziale in sé, è la prima a rappresentarne uno. Il colore scelto come sfondo è un discutibile rosa ma, sapientemente, sono state realizzate anche altre versioni in varie tonalità.

Il calcio con Messico 1970 entra nella sua fase contemporanea e diventa lo sport più seguito e sognato al mondo. Nasce la cultura del calcio moderno. Finisce l’epoca di Pelè e Di Stéfano, inizia quella dei vari Cruyff, Maradona e Van Basten.

 

Fu proprio l’Olanda di Johan Cruyff, quella del “calcio totale”, a incantare il mondo intero nei campionati successivi. La decima edizione dei mondiali venne disputata in Germania Ovest (vincitrice in finale proprio contro l’Olanda), ossia nella nazione simbolo dell’epoca.

Stati Uniti e U.R.S.S. esercitavano il proprio controllo sul mondo, spartendoselo a spicchi. Il muro innalzato a Berlino per dividere la Germania Est da quella Ovest rappresenta, senza alcuna ombra di dubbio, l’emblema di un mondo assurdamente diviso in due fazioni. Era l’epoca della Guerra Fredda e della strategia della deterrenza, fondata sulla paura di un attacco nucleare in grado di devastare il pianeta intero.

 

Argentina 1978

Roba da libri di storia o da film di fantascienza. Così come fantascientifico è il manifesto scelto per Germania 1974. Uno spaventoso giocatore calcia con potenza il pallone nel buio della notte. L’effetto mosso rende l’idea dell’azione e del movimento, superando l’abitudine delle precedenti locandine di utilizzare immagini ferme (così lontana, tanto per fare un esempio, dalla staticità espressa da Bocassile per Italia 1934). Il disegnatore, Fritz Genkinger, è un famoso pittore tedesco appassionato di calcio e già autore d’innumerevoli opere sul tema. Venne contattato direttamente dalla Repubblica Federale Tedesca e fu autore di altri due poster del mondiale, forse meno imponenti di quello ufficiale ma di indubbio valore artistico e, probabilmente, ancor più belli del primo.

 

I gusti, si sa, sono di natura soggettiva. Ma il fascino del poster di Argentina 1978 contribuisce a restituire un po’ di oggettività alla parola “bellezza”.

Un trionfo già scritto quello dell’Argentina nel ’78 e visibile anche nel manifesto ufficiale. Due calciatori, palesemente vestiti con la maglietta della nazionale argentina, esultano abbracciandosi. Uno dei due, evidentemente l’autore di una rete, alza le braccia al cielo.

È l’Argentina della dittatura di Videla e delle migliaia di desaparecidos, ma il paese aspetta questo momento da decenni e, complice una colpevole e diffusa ignavia, si pensa esclusivamente al calcio.

“I mondiali della vergogna” verranno definiti successivamente, per via del silenzio con cui, di fatto, vennero nascoste le violazioni dei diritti umani commesse in quel periodo in Argentina.

Il poster, il primo nella storia dei mondiali a non avere un pallone, è in stile puntellato. Il disegno, inoltre, ritrae uno dei giocatori con dei baffi folti, rendendo omaggio alla cultura del baffo, molto in voga in quegli anni.

Un successo già scritto, appunto, e consolidato con la vittoria ai danni di una nuovamente sfortunata Olanda, sconfitta per tre a uno nella finale di Buenos Aires che diede il via ai festeggiamenti di una nazione impazzita per l’impresa ottenuta dai propri beniamini.

 

Spagna 1982

Un anno prima della fine della dittatura militare in Argentina i mondiali di calcio tornano in Europa e, precisamente, in Spagna. Siamo nel 1982, l’edizione della famosa partita a scopone scientifico sul volo di ritorno da Madrid, tra il ct azzurro Bearzot, il presidente Sandro Pertini e i giocatori Causio e Zoff (con tanto di Coppa del Mondo in bella vista).

Le tensioni della Guerra Fredda si avviano verso la fase distensiva e la Spagna si prepara ad accogliere la massima competizione calcistica, celebrando uno degli artisti più famosi in patria. Si tratta del surrealista Joan Mirò, pittore, ceramista e scultore. Mirò è anziano nel 1982 (morirà pochi mesi dopo, all’età di novant’anni) ma è amatissimo in tutto il mondo. Uno vita consacrata completamente all’arte da quando, ancora giovanissimo, ebbe un esaurimento nervoso lavorando come contabile in una drogheria. Da allora si dedicò interamente alla sua passione. Lavorò con autori del calibro di Pablo Picasso e Marx Ernst e, forte di un elevato senso civico, realizzò molte opere pubbliche e collaborò a più riprese nel curare la comunicazione dei governi iberici. Non stupisce quindi che gli spagnoli abbiano deciso di omaggiarlo in occasione dei mondiali del 1982. La locandina rompe forse con la tradizione iconografica dei mondiali ma trasmette tutta la gioia per la manifestazione e l’orgoglio degli spagnoli.

 

Messico 1986

Nel 1986 i mondiali tornano nuovamente in Messico. Fu però per caso. Originariamente, infatti, era stata designata come sede la Colombia. Negli anni ’70 e ’80 i paesi latinoamericani furono caratterizzati da una serie di tensioni interne spesso sfociate in sanguinari colpi di stato. Non fu da meno la Colombia che, per problemi di governo e per mancanza dei requisiti imposti dalla Fifa, dovette rinunciare ai mondiali nel 1983, cedendo il posto al Messico.

Piaceva sorprendere ai messicani, lo avevano già fatto in occasione dell’edizione del 1970.

Il poster ufficiale, per la prima volta, non è un disegno. Si tratta invece di una foto, realizzata dalla fotografa americana Anna-Lou (Annie) Leibovitz, famosissima ritrattista di personaggi del calibro di John Lennon e Michael Jackson, nonché autrice di copertine per prestigiose riviste come Vanity Fair e il Rolling Stones. Si tratta anche della prima locandina realizzata da una donna. La foto ritrae, su alcune rovine azteche, l’ombra di un antico atleta impattare l’immancabile pallone.

Sono i mondiali della mano de dios, di Diego Armando Maradona e del gol più bello della storia del calcio, realizzato dribblando metà selezione inglese.

 

Italia 1990

Nel 1990 i mondiali si disputano ancora una volta in Italia, sessantasei anni dopo l’edizione del ‘34. Ne è passato di tempo da allora. È cambiato non solo il calcio ma il mondo intero. Termina l’epoca dell’Unione Sovietica: fine della Guerra Fredda e crollo del muro di Berlino. La Germania torna ad essere una nazione unificata e mostra a tutti il proprio valore, imponendosi nelle “notti magiche” italiane. Alberto Burri aveva settantacinque anni in quel periodo e una carriera internazionale come pittore e artista. Nato durante la Prima Guerra Mondiale, si laureò in medicina poco prima della Seconda. Proprio in occasione del conflitto ‘39-’45, fu arruolato come ufficiale medico. L’esercito americano lo catturò come prigioniero, recludendolo in un campo per criminali in Texas. L’esperienza della deportazione lo privò momentaneamente della libertà ma gli regalò la passione per la pittura, arte che iniziò a coltivare proprio come recluso. Da allora, e nel giro di poco tempo, intraprese una brillante carriera internazionale, con numerose esposizioni proprio negli Stati Uniti.

 

Alberto Burri lavorava da qualche settimana al manifesto di Italia 1990 quando, passando per caso davanti al Colosseo, ebbe un’improvvisa intuizione: l’Anfiteatro Flavio è al tempo stesso uno stadio antico – e gli stadi sono la casa del calcio – e uno dei simboli dell’Italia nel mondo. La conseguenza venne da sola.

La locandina dei mondiali del ’90 utilizza una vecchia foto del Colosseo (realizzata dall’aeronautica militare italiana). Burri la elabora, ponendo al centro del monumento romano un campo da calcio con, tutto attorno, le bandiere delle nazioni partecipanti.

 

Usa 1994

Uno stadio non era mai stato il soggetto del manifesto di un mondiale. Ma di stranezze e curiosità se ne sono viste tante nella storia della competizione. Come ad esempio avvenne per la locandina di USA 1994. Più che di stranezza si trattò di un banale errore. Gli Stati Uniti commissionarono il poster al tedesco Peter Max, naturalizzato americano. Una vita di trasferimenti, la sua: la famiglia scappò dalla Germania nazista appena prima della Seconda Guerra Mondiale. Da allora, la loro casa diventò la Cina, poi Israele e infine gli Stati Uniti. Famoso per l’uso eccentrico (a tratti psichedelico) dei colori, Max ha realizzato innumerevoli lavori, tra i quali si ricorda un Boing 747 completamente pitturato dall’artista.

Il manifesto di USA 1994, di fatto, è un bel tripudio di colori: un calciatore, sospeso in orbita sopra la terra, esegue una classica rovesciata su uno sfondo di tonalità accese. Il giallo, se così può essere definito, riguarda invece l’utilizzo di tale immagine. Stranamente, infatti, il sito della Fifa non ha riportato il poster ufficiale bensì un altro, decisamente meno elaborato: si tratta dell’immagine dei palloncini a forma di pallone, sospesi sopra una cartina degli Stati Uniti d’America, che compongo insieme la scritta “94”, anno della manifestazione. Le tonalità richiamano la bandiera a stelle e strisce statunitense. Di fatto, sono in molti a ricordarla maggiormente rispetto al lavoro di Peter Max.

Ma nelle passate edizioni abbiamo imparato a non sorprenderci più di nulla.

 

Francia 1998

Nel 1998 i mondiali sbarcano, dopo oltre mezzo secolo, in Francia. Una Francia più distesa di quella del ’38 e che ha costruito una nazionale davvero forte, destinata a dettare legge sul campo per qualche anno. I transalpini decidono di riprendere in mano la tradizione del concorso per la realizzazione del manifesto ufficiale. Una giovane Nathalie Le Gall si aggiudica il premio finale, successo che servirà da trampolino di lancio per la carriera futura. Parigina di nascita, cresciuta a Montpellier, città in cui si è formata, Nathalie ha appena ventotto anni quando partecipa al concorso. L’oggetto del manifesto è nuovamente uno stadio, come per Italia 1990.

A differenza di allora, però, l’immagine non è grigia e memorabile come il Colosseo di Burri. Nathalie opta per un tripudio di colori. Gli spettatori sono creati da un effetto puntellato e il carattere delle scritte è molto fantasioso.

E certamente ne occorre di fantasia per realizzare un manifesto di un mondiale. Anche perché, indubbiamente, non si può spaziare troppo sul soggetto che, bene o male, sempre un campo, un calciatore o un pallone dovrebbe essere. Bisogna quindi ricorrere all’immaginazione e al talento artistico. Ma non solo: occorre anche tenere in considerazione le esigenze del paese ospitante. E i mondiali del 2002 sono una vera e propria rivoluzione.

 

Corea e Giappone 2002

Il mondo supera indenne le ansie da millennium bug ma scopre la minaccia del terrorismo islamico con l’attentato dell’11 settembre 2001, quello che ha cambiato la storia, gli assetti e le preoccupazioni attuali della comunità internazionale. È un pianeta differente quello del nuovo millennio: un mondo globale. Lo sa anche la Fifa che decide di organizzare, per la prima volta, un mondiale in un continente diverso dall’Europa e dalle Americhe. Nel 2002 i mondiali di calcio si disputano in Asia e, incredibilmente, la Fifa opta per una doppia designazione: Corea del Sud e Giappone. La collaborazione tra le due nazioni asiatiche si concretizza già nella realizzazione del manifesto ufficiale.

 

Due calligrafi, esperti in disegno e nell’arte dei segni orientali, il coreano Byun Choo Suk e il giapponese Hirano Sogen, entrambi stimati e riconosciuti in patria, ricevono il delicato incarico di realizzare la locandina. È un’occasione importante non solo per loro, ma per tutto il continente. I due accettano la sfida e iniziano a lavorare separatamente all’immagine, con l’idea finale di sovrapporre il risultato e di confezionarlo in un unico prodotto. Il poster dei mondiali 2002 è un interessante disegno che coniuga la cultura calcistica alle tradizioni asiatiche: un campo da gioco in cui le linee sono formate da una reinterpretazione dei segni della scrittura orientale antica. I tratti e i colori esprimono vitalità e velocità. L’esperimento, almeno da un punto di vista artistico, non tradisce le aspettative.

 

 

Germania 2006

La Fifa, con l’esperienza asiatica, ha aperto al mondo intero. Otto anni più tardi sarà la volta dell’Africa. Ma c’è ancora tempo e, nel mentre, la competizione torna in Europa.

Il 2006 è un anno difficile per il calcio italiano. Già colpito più volte dagli scandali doping e scommesse, il mondo del pallone italiano entra nella bufera di Calciopoli. La nazionale azzurra arriva ai mondiali un po’ frastornata ma compatta. Sembra la classica storia all’italiana: scandali, ladri, furbizie e caos vengono romanticamente scacciati da un’impresa fondata su uno scatto d’orgoglio nazionale. È l’estate del 2006 e l’Italia torna campione del mondo per la quarta volta nella storia. Siamo in Germania ma siamo soprattutto nella nuova Unione Europea dalla moneta unica: merci, risorse e persone libere di circolare dentro una Comunità Europea ancora in pieno sviluppo. I tedeschi lo sanno bene, sono il polmone dell’Europa, e il manifesto scelto per i mondiali evoca le stelle e il cielo notturno della bandiera europea. Per la prima volta nella storia dei mondiali di calcio, il poster ufficiale viene deciso in maniera partecipata, tramite un televoto. Roba da tempi moderni.

L’agenzia di comunicazione WE DO, vincitrice finale, ha prevalso su gli oltre novecento lavori pervenuti. Il manifesto rappresenta un cielo stellato in cui gli astri si congiungono per formare un pallone da calcio. Semplice, elegante ed evocativo.

 

Sudafrica 2010

Le novità introdotte nelle ultime edizioni dei mondiali furono riprese in Sudafrica 2010. Si cambiava nuovamente continente, scegliendo l’Africa appassionata di calcio che aveva prodotto selezioni interessanti nelle precedenti edizioni, a partire da Italia 1990. Squadre come Camerun, Nigeria e Senegal avevano infatti ben figurato in diverse occasioni, producendo un calcio forse disordinato ma assai veloce e fisico.

La massima competizione calcistica sbarca quindi nella Repubblica Sudafricana. Il premio Nobel per la Pace Nelson Mandela era riuscito nell’impresa di sconfiggere l’apartheid che aveva fornito una pessima immagine del paese agli occhi del mondo intero, oltre a causare povertà e ripetute violazione di diritti tra le mura sudafricane. I mondiali di calcio 2010 rappresentano quindi anche un’ottima occasione per festeggiare l’uomo che condusse la nazione nel ’94 alle prime elezioni democratiche a suffragio universale, estese quindi ad ogni etnia.

L’Africa diventa un intero continente in festa, come si evince dalla locandina di Sudafrica 2010: la testa di un giocatore africano, la cui forma del collo richiama quella del continente, guarda un pallone sollevato in volo. L’immagine è semplice e contestualizzata.

Anche in tale occasione fu indetto un concorso pubblico, vinto dall’agenzia pubblicitaria Switch Sudáfrica nel novembre del 2007.

 

A vincere sul campo è invece la Spagna di Del Bosque, la nazionale regina indiscussa del calcio odierno. È la spagna dei vari Casillas, Puyol, Iniesta, Xavi, Xabi Alonso e Fàbregas: un gioco veloce, tecnico e appassionante che non lascia scampo agli avversari.

Ancora oggi sono loro i campioni di battere. Anche se sarà dura ripetersi. Ad attenderli, soprattutto, c’è il Brasile ospitante. La patria del calcio che sogna di festeggiare in casa la vittoria di un mondiale. Sarebbe un evento unico e immemorabile. Brasile 2014, però, è anche un mondiale controverso e pieno di polemiche. Il Brasile è, infatti, una nazione in forte sviluppo economico ma con diverse tensioni sociali all’interno e una povertà largamente diffusa. L’organizzazione della competizione ha richiesto ingenti investimenti in infrastrutture, accolti malamente da una buona parte della popolazione che chiedeva priorità di spesa in altri settori. Scoppia una serie di proteste popolari nel paese, represse duramente dal governo brasiliano.

Brasile 2014

Si arriva così all’inaugurazione dei mondiali di calcio 2014 con molte paure e polemiche. Ma anche con tanta passione e attesa. Il manifesto ufficiale incarna tutte queste emozioni. Come ricorda il segretario generale della Fifa Jérôme Valcke, la locandina mostra “un paese ai piedi del pallone”. L’agenzia brasiliana Crema, autrice dell’opera, ricrea la forma della nazione attraverso due giocatori che si contendono il pallone. Il manifesto è un tripudio di eleganti e ripetuti riferimenti al Brasile e alle sue tradizioni. I colori e i dettagli che compongono l’immagine sono animali, piante, luoghi e consuetudini della cultura brasiliana.

 

 

Non è la prima volta che si disputa un mondiale nel paese sudamericano.

Nel 1950 a Rio de Janeiro fu una catastrofe: i favoriti verdeoro vennero sconfitti in finale, contro ogni pronostico, dall’Uruguay, gettando l’intera nazione in una surreale e sconvolgente disperazione.

Sessantaquattro anni dopo la tragica finale del Maracanà, il Brasile torna a sognare.

Dimenticando i problemi reali dei cittadini e vivendo, per un periodo, solo di calcio? Probabilmente. Ma forse è anche questo il senso dell’intuizione che ebbe Jules Rimet negli anni ’20: dare vita alla competizione più amata e discussa nel pianeta, i cui manifesti ufficiali sono una traccia indelebile che resiste nella memoria collettiva.