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Quelli di Tor Marancia

Quelli di Tor Marancia

Il pallone era tutto a quel tempo. Quando sei bambino, infatti, fa questo effetto. Perché, se sei abbastanza fortunato, non hai troppe preoccupazioni. In modo da spendere quegli anni interamente a sognare, tirando quattro calci a un pallone. Ed era esattamente quello che facevamo anche noi. Con una sola piccola differenza. Purtroppo, anche a giocare a calcio, eravamo decisamente scarsi.

Da una parte la città giardino, Garbatella, la borgata popolare diventata famosa in Europa come modello di sviluppo urbanistico. Uno dei quartieri più amati dai romani. Dall’altra, una zona periferica del quartiere Ardeatino, Tor Marancia. Nell’osservarla, è molto più brutta della Garbatella, ma esercita sempre grande fascino. Garbatella e Tor Marancia. Così simili e così vicine; eppure così lontane. Una strada sola, la Cristoforo Colombo, le separa. Quattro corsie, quaranta metri di asfalto: a vederla così la Colombo sembra più simile al muro di Berlino.

Era la fine degli anni ’60. La dolce vita romana, laggiù, non era apparsa nemmeno in televisione.
Due quartieri di gente umile, che tirava a campare alla buona. Operai, casalinghe, disoccupati, imbianchini, idraulici, muratori e ancora operai e casalinghe.
E poi c’eravamo noi. I bambini.
A scuola, la mattina, eravamo per lo più amici. Il pomeriggio, invece, a forza di essere reclusi nel proprio quartiere, ognuno di noi aveva sviluppato un’antipatia per i vicini.
E per noi di Tor Marancia, scherniti sempre da loro, quello contro la Garbatella era un derby continuo.
Ogni tanto scappavamo, attraversavamo la Colombo di nascosto e ci intrufolavamo nel fortino nemico. Rubare baci alle ragazze della Garbatella e infilarci al cinema per vedere un film dei nostri eroi americani.

Ce le davamo di santa ragione. E non tanto per dire. Una sera tornai a casa tutto sporco di fango e con qualche livido. Ricordo che tutta la famiglia dovette faticare per bloccare mia madre, infuriata, che voleva farsi vendetta da sola con una padella in mano. Avete capito bene, mia madre. Era roba da donne difendere il buon nome del quartiere e della famiglia. I nostri padri, per quel poco che ricordo, tornavano la sera stanchi dal lavoro e non avevano tempo né voglia di azzuffarsi con i vicini, molti dei quali colleghi.
E di questa silente omertà tra padri, noi bambini di Tor Marancia, eravamo le vittime indifese. Perché diciamoci la verità: quelli della Garbatella erano molto più fortunati di noi. Avevano il cinema, i parchi belli e il campetto in erba. Persino le ragazze erano più carine e più sveglie delle nostre.
Ci prendevano in giro su tutta la linea. Col senno di poi, ammetto che eravamo un po’ sfigati. Ma eravamo testardi e dannatamente orgogliosi.

Non potemmo perciò tirarci indietro il giorno in cui venne lanciata la sfida. Garbatella contro Tor Marancia. Un derby tra le due zone limitrofe.
Se avessimo perso sarebbe stata una umiliazione quotidiana a scuola.
A loro, a dire il vero, di Tor Marancia non gliene importava proprio niente. Non ci mettevano neanche piede. Ma il gusto di chiudere i giochi una volte per tutte e relegarci per sempre al di là della Colombo fu una caramella troppo dolce per non accettare. Erano troppo forti per avere paura di noi.
Se vincevano loro saremmo spariti per sempre dalla Garbatella ma, se per caso avessimo vinto noi, ci saremmo guadagnati il loro rispetto.

Il loro capo era Cavallo Pazzo Matteo. Un nome da eroe western, di quelli che mettono paura solo a pronunciarli. Conteso dalle ragazze e, ovviamente, fortissimo a calcio.
Michele detto Pecora, per via di quell’ammasso uniforme di capelli che aveva sulla testa, era invece il nostro di capo. Undici anni e ottantanove chili di umiliazioni continue. Capirete da soli che non faticarono a raccogliere la sfida, lanciata proprio dal nostro Pecora.
Era un pallonaro nato.
– Noi siamo molto più forti di voi, vi battiamo quando vogliamo.
– Siete solo una banda di scemi. Rispose Cavallo Pazzo.
– Allora vi sfidiamo quando volete!
– Facciamo una cosa, Pecora, venite sabato prossimo e dimostratelo. Qui, davanti a tutti.
– Va bene. Però se vinciamo noi ci portate in trionfo e ci lasciate giocare in pace per la strade di Garbatella
Risero fragorosamente, i bastardi. – E se perdete?
– Beh, se perdiamo, spariremo per sempre dalla Garbatella e non ci metteremo mai più piede.

Appunto. L’idea di umiliarci davanti al proprio pubblico e vederci tornare a testa bassa a Tor Marancia, dove saremmo rimasti per sempre, fu un premio troppo grande per non accettare.
Sputo sui rispettivi palmi e stretta di mano. L’accordo era fatto. Il prestigio tra Garbatella e Tor Marancia si sarebbe deciso su un campo da calcio.

Non eravamo bravi a giocare a pallone. Ma era il nostro pane quotidiano. Giocavamo ininterrottamente trecentosessantacinque giorni all’anno. Niente ferie e niente domeniche. Non ci fermava nemmeno l’inverno. Pioggia, fango e neve, semplicemente, era come non esistessero.
Quel giorno gli spalti dell’oratorio erano pieni. Tutto il mondo che conoscevamo era venuto a vederci. Eravamo emozionatissimi.
Mia madre riuscì a cucirci delle magliette per l’occasione. Erano una diversa dell’altra ma, viste da fuori, sembravano quasi identiche. Tutte rosso fuoco.
La partita si fece subito fallosissima. Erano più grossi e più cattivi di noi. Sullo zero a zero, dopo soli nove minuti, il nostro bomber fu falciato poco fuori dalla loro area di rigore. Si fece parecchio male e fu costretto a lasciare il campo.
Eravamo disperati. Negli occhi nostri si leggeva il terrore. L’unico forte in mezzo a noi ci aveva abbandonato. Eravamo undici contati. Anzi, a dire il vero, ci presentammo in dodici. C’era anche un ragazzino di otto anni, molto silenzioso. Bravo a giocare ma certo molto più piccolo degli altri. Di fatto entrò nel momento di maggiore sconforto. Lui, invece, non sembrava nemmeno emozionato. Sapeva quello che faceva.
Ho ricordi veramente confusi di quei secondi. Ricordo il silenzio generale, le risate degli avversari e nessuno di noi che voleva tirare la punizione. E poi c’era quel ragazzino, Agostino, così tranquillo. Si posizionò sul punto di battuta e sistemò il pallone con cura. Lo lasciammo fare, ma solo perché non capivamo nulla.
– Tira la bomba, Ago. Gridarono scherzando dagli spalti.

Non fu un miracolo. Fu semplicemente un bellissimo tiro. Un tiro di una potenza inaudita per un bambino di quell’età. La palla scavalcò la barriera e s’infilò sotto l’incrocio dei pali. Il portiere loro non provò nemmeno ad arrivarci. Credo non la vide nemmeno partire.
Fu l’apoteosi. Le facce incredule dei ragazzi della Garbatella e noi che correvamo da una parte all’altra del campo come una mandria di zebre impazzite.
Quanto al piccolo Agostino, si lanciò in una corsa vincente fino al centrocampo. E si lasciò andare, con le ginocchia poggiate a terra e le mani tese al cielo.

Ne tirò altre due in quell’occasione.
Tre a zero era molto di più di una semplice vittoria. Era la vittoria della vita. Davanti al loro pubblico, vederli piangere in ginocchio e poi farci l’applauso mentre uscivamo dal campo.
Le nostri madri ci festeggiarono per una settimana intera. E ancora oggi, se chiedi a qualche anziano del quartiere, ti racconterà di noi. E la ricorderà come la storia della squadra che rese grande Tor Marancia.

 

Dedicato ad Agostino Di Bartolomei

Immagine tratta dal sito asromaultras.org

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