pescatore di storie

sei aprile duemilaventi

sei aprile duemilaventi

Ho dei ricordi annebbiati di quei giorni. Come se, inconsciamente, avessi relegato il terremoto dell’Aquila a sfere della memoria intangibili, se non altro perché difficili da descrivere.

Qualsiasi paragone con oggi, qualsiasi retorica che metta a confronto l’attuale pandemia con quel terremoto sarebbe un esercizio di stupida quanto inutile metrica del dolore. Oggi ci sono troppi drammi personali che non conosciamo e che, magari, scopriremo solo nei mesi o negli anni a venire.
Non ci casco, sebbene la tentazione è forte.
Certo non posso non segnalare che all’epoca non ci si aggrappava nemmeno al desiderio di tornare alla normalità, all’epoca c’era distruzione e basta.
Almeno in quei giorni.
E c’era da farci i conti, non si scappava.

Ricordo mezzi di soccorso e forze dell’ordine ovunque.
Ricordo poi i palazzi sventrati, le stanze a cielo aperto. Che dalla strada si vedeva bene l’arredamento, i mobili, i quadri ancora appesi alle pareti rimaste in piedi: vedevi la vita com’era prima.

Con alcuni volontari stavamo presso la tendopoli di Collemaggio. Ricordo le tende blu e i vialetti tutti identici, che per orientarti i primi tempi utilizzavi i dettagli come in campeggio, magari un tavolino o dei panni stesi.
Le tende erano spartane, essenziali. C’erano solo le brandine con i sacchi a pelo e montagne di coperte. Ricordo la gioia dei bagni chimici…
In generale, ricordo la convivenza tra soccorritori e soccorsi che rendeva il tutto così fuori da ogni logica sociale, eppure credetemi così naturale. Come se vi fosse in quel tempo un clima di umanità autentica che, forse, non ho più ritrovato.

C’era, sempre a Collemaggio, un gruppo di pompieri messicani. Erano una dozzina, tutti esperti internazionali in soccorso e tutti volontari, accorsi dall’altra parte del mondo per fare la loro piccola parte.
Si erano proposti di recuperare dalle macerie i ricordi delle persone: calarsi negli edifici inagibili per raccattare un album fotografico, una fede nuziale o cose simili. Qualsiasi cosa potesse tracciare un filo simbolico tra il passato e un futuro che ancora non esisteva.
Un pensiero romantico, potente, bellissimo.
Solo che inutile.
Non serviva, non in quella fase certamente.
E così, ogni mattina li trovavi alle otto in punto fuori dal tendone adibito a mensa, in divisa e con l’elmetto in mano, sorridenti, pronti a entrare in azione. Attendevano fiduciosi le disposizioni sul da farsi da parte della Protezione Civile, disposizioni che però non sarebbero mai arrivate. Perché la terra continuava a tremare e le priorità erano evidentemente altre.

Di giorno salutavo los bomberos e con altri volontari andavamo alla Reiss Romoli, un ex centro di ricerca adibito a sede della Protezione Civile.
Il nostro compito era digitalizzare i moduli con le verifiche sull’agibilità delle case, quelli che ogni giorno ingegneri e vigili del fuoco compilavano a penna mentre perlustravano le vie della citta.
L’esito di ogni singola perizia definiva lo stato di un’abitazione e i danni riportati: stabiliva, quindi, se una famiglia poteva o meno tornare a casa propria.
Il problema era che le continue scosse rendevano necessari altri sopralluoghi, così ogni due o tre giorni si ricominciava.
Era un lavoro immenso, senza fine.
Inserivamo centinaia, migliaia di dati ogni giorno. Dopo una settimana eravamo diventati talmente esperti da conoscere le vie più colpite e capire l’esito di agibilità già dalle prime righe dei moduli.

Non c’era molto da fare invece per la frazione di Onna, la più colpita dal terremoto con quaranta morti e cinquanta feriti su poco più di trecento abitanti totali. Era un paesino quasi interamente raso al suolo.

Ricordo che la prima volta che andai a Onna rimasi sconvolto dalla faglia in mezzo ai campi.
La terra si era letteralmente aperta in due, quasi a insegnare che nemmeno la natura si salvava dalla propria furia distruttrice. Attorno: un villaggio fantasma, un villaggio di fantasmi, presidiato ininterrottamente dall’esercito.
Poco più in là, invece, c’era l’accampamento con la tendopoli.
Il clima era decisamente meno disteso a Onna che a Collemaggio, dove il trauma della povertà improvvisa, almeno, non si confondeva con lo stordimento che dà la morte.
A Onna lo si vedeva, lo si sentiva.
Ma s’imparava subito a conviverci.
Noi davamo una mano a mensa, dove servivamo cibo per i soccorritori, i militari e i pochi paesani che erano rimasti perché non sapevano dove andare. C’erano anche un paio di famiglie con i bambini, ogni tanto giocavamo con loro in una tenda adibita a ludoteca.
Ecco, questa era L’Aquila undici anni fa.
Di più, anche volendo, non ricordo.

Ho avuto modo di tornare a L’Aquila e vedere e cercare di capire un po’ come andavano le cose. Mi hanno raccontano di una generazione ferma, fuori da ogni tempo.
Si trova tanto materiale in giro. Questa quarantena, il tempo che ci concede e la noia che a volte la contraddistingue potrebbero rappresentare una buona occasione per informarci su come si vive oggi nelle zone terremotate. Non solo quelle abruzzesi, peraltro.

Una cosa è certa: L’aquila 2009 è stato l’inferno, la morte vera.

Eppure non ho mai visto tanta umanità come allora, fatemelo dire.
Si faceva quel che c’era da fare; ognuno dava ciò che poteva dare. Si era concreti.
Ricordo i pasti con volontari di ogni religione, professione e provenienza, le partite a carte la sera in tenda, le file per lavarsi i denti alla fontanella.
Ricordo, banalmente, che le relazioni erano quanto di più importante ci fosse.
Sono nati amori tra volontari, pensate.
Già, c’è chi si è addirittura sposato grazie al terremoto dell’Aquila. Assurdo.

Ecco, oggi che siamo tutti nella sofferenza, un po’ come allora si stava tutti nel dolore, spero che nasca qua e là qualcosa di buono.
Magari qualcuno s’innamorerà grazie a questa quarantena. Chi può dirlo?
Oppure c’è chi avanzerà delle riflessioni sulla propria vita che, altrimenti, non avrebbe fatto. Chi maturerà delle scelte importanti, chissà.

Non posso, infine, fare a meno di pensare che tra sei giorni è Pasqua. Non posso, allora, non concludere con un pensiero costruttivo.
Che sia di resurrezione, qualora crediate. Oppure di rinascita, se preferite.
Non posso non concludere pensando alla continuità dell’esistenza: capace di trasfigurarsi nel corpo, come un seme, e diventare nuova vita.

Ecco, che questa quarantena regali a molti di noi una vita nuova.