pescatore di storie

Operazione “Natale Segreto”

Operazione “Natale Segreto”

Gli anni passano per tutti ma al tavolo del salone non sembra importi poi molto. È in noce e anzi, più diventa vecchio, fragile nelle venature e imperfetto all’occhio e più appare forte, acquista prestigio.
Almeno lui.
Nostra madre sistema le ultime cose e canticchia Frank Sinatra convinta che nessuno possa sentirla. Sta allestendo il villaggio di Natale, una specie di presepe moderno che inscena la vita di un borgo similcontemporaneo al ridosso delle festività. Io lo trovo decisamente brutto, con tutte quelle costruzioni che emettono suoni e luci improbabili.
Di più: non ha proprio senso, il villaggio di Natale. Voglio dire, non segue nessun criterio storico né paesaggistico: snowbordisti alla fermata dell’autobus che salutano calzolai e mulini a vento con insegne al neon fluorescenti. La vera deriva della società contemporanea.
Ma a lei piace.

C’è l’ufficio postale, la banca e l’angolo delle giostre: con i calcinculo, la ruota panoramica e il suo preferito, il carillon con i cavalli. Chissà con quale potere invisibile le evochi di quando, bambina, impartiva ordini a un cavalluccio di legno. E infatti, come trascinata da un desiderio segreto d’infanzia, canticchia e prepara le ultime cose: l’ovatta per la neve fresca, gli alberi, i lampioni.
Ed è allora che inizia una specie di sortilegio e il Villagio prende vita.
La neve cade copiosa per le strade, sopra gli uffici, le giostre, sui tetti delle case. Alcune di queste hanno luci accese, e se ti avvicini abbastanza alle finestre puoi addirittura sentire la vita scorrervi dentro.

 

8 Dicembre 1989.

La voce di Sinatra è inconfondibile; fastidiosa, talmente è perfetta. Risuona per tutte le stanze.
Papà si è appena regalato lo stereo della Technics, quello con le casse da 100 watt e il lettore per i compact disc, dicono sia il futuro della musica.
«Senti qua che potenza.»
Mia madre fa capolino tra i rami:
«Certo con tutte queste spese… proprio ora dovevi comprarlo?»
«Scusa, amore, non sento», risponde indicando lo stereo.
«Dico» ribatte ingenuamente alzando il tono «proprio adesso dovevi…». Ma la mano di mio padre scorre sulla manopola e il volume copre ogni cosa che non sia something stupid like a love you.

 

Lei non ha mai avuto dubbi al riguardo. Occorre un fine settimana intero per avvicinarsi al Natale, quarantotto ore di battaglia e sudore: con scatole fatte a brandelli, pastorelli esanimi, addobbi smarriti e rami gettati qua e là.
Perché a casa nostra il Natale è una cosa seria.
Gli alberi sono due, quelli grandi intendo, gli alberelli nemmeno si contano. Sosia di Babbo Natale si calano dai lampadari e file di campanellini d’orati ricalcano i profili dei mobili. Di tutti i mobili. E poi: presepi a perdita d’occhio, che si confondono, che tutti quei bambinelli finiranno per litigare prima o poi. E invece no, anno dopo anno sono tutti ancora là, mentre io mi chiedo se siano davvero felici a non crescere mai.
Ad ogni modo, all’epoca non esisteva il villaggio di Natale.
C’era il grande presepe, quello vero, con le montagne in sughero, il bosco di muschio e il cellofan stellato che veniva voglia di esprimere un desiderio. Con i miei fratelli eravamo soliti apportare piccole modifiche, era il nostro modo di contribuire alla faccenda. Ad esempio mettendo un soldatino col fucile puntato dietro la nuca di Maria, a intimare il da farsi. Perché si respirava una strana aria giù a Betlemme. Un astronauta degli Starcom aveva preso il posto del bambinello, segno che l’operazione Natale Segreto aveva avuto inizio.
Tutt’attorno – ma anche questo faceva parte del piano –, regnava la calma assoluta. Pegasus, l’imbattibile cavaliere dello zodiaco, e i re magi si avviavano senza fretta verso la stalla; mentre il maiale montava la pecorella, il pastorello la lavandaia e il bue l’asinello.

Nostra madre ci lasciava abbastanza fare. Certo ogni tanto s’affacciava al presepe e interrompeva eventuali amplessi in atto nella mangiatoia: salvare le apparenze, almeno quelle. Salvarle sempre. D’altra parte lei viene dalla Sicilia che è la terra delle apparenze, dove le parole contano quanto, se non più, dei fatti. E i fatti, nello specifico, narrano di un trasferimento da Palermo a Roma alla ricerca di un lavoro e una nuova vita.
Siamo negli anni ’70, la facevano in milioni questa roba di muoversi dal sud al nord, oppure dalla campagna alla città: un tentativo per vedere se la vita poteva andare un po’ meglio. Perché no?
Certo non sarà stato facile ricominciare in una città sconosciuta, lontano da radici e affetti.
Aveva però una casa e una famiglia tutta sua, un primo lavoro e poco altro. E le andava bene: un marito e tre figli era quanto di meglio avrebbe potuto chiedere.
Abbiamo bisogno poi di molto?

Non l’ho mai vista così felice come a Natale.
«Paolo, Giorgio, Dario… dai, venite!»
«Che succede?»
«Papà ci scatta una foto, tutti insieme. Veloci, su, vicini al camino.»
La Rolleiflex poggiata sul tavolo: qualche secondo per sistemare esposizione e inquadratura, quindi il pulsante dell’autoscatto:«Forza, un bel sorriso».
«Uffa, ha fatto?» brontola Giorgio prima di scappare via. – Io voglio andare di…»
«Fermo, non ha ancora scat… Appunto.»

Quella macchina fotografica la regalò il nonno a mio padre il giorno in cui divenne maggiorenne. Chissà che rapporto avevano. Raramente pensiamo al fatto che un genitore, evidentemente, è stato anche un figlio. Ad ogni modo non l’ho mai conosciuto a nonno Gaspare, se ne andò poco prima che nascesse Paolo. E da allora la moglie, nonna Pina, era solita trascorrere ogni Natale con noi.
Le volevo un gran bene. Nonna Pina che chiamavamo nonna pene e le facevamo gli scherzi e lei si arrabbiava molto, uh se si arrabbiava. Nonna Pina che mangiava per due e veniva in aereo da Palermo con una valigia grande piena di biscotti, monete per i nipoti e tenerumi, le foglie delle zucchine lunghe con le quali faceva una pasta incredibile che ci andavamo matti.

Nonna Pina ha avuto una vita incredibile. Non lo dico mica per dire, è tipo la versione siciliana e mangiona di Forrest Gump.
Ad esempio, una volta accolse in casa una ragazza rimasta vedova per un omicidio di mafia e il figlio di questa è diventato un giornalista famoso e l’ha anche ringraziata, in un libro, a nonna Pina. Dice che c’è mancato un pelo che non sia diventato un killer di Cosa Nostra e che, nel momento della morte del padre, lei si prese cura di loro.
Ah, che tipo, nonna pene: testarda, testardissima.
Come quella volta che fece incazzare padre Pio.
Si era appena ammalata di una grave forma di tumore all’utero e i medici le avevano dato massimo tre mesi di vita, invitandola a lasciare tutto in ordine.
In ordine? Col cavolo che lascio tutto in ordine, pensò.
Allora prese il suo ventaglio preferito e il rosario, e se ne andò in un paese in provincia di Foggia. Aveva già perso venti chili e non le restava molto da campare, ma decise comunque di tentare coi santi e con questo prete pugliese di cui si vociferava un gran bene. Un paio di settimane di preghiere, cose così immagino. Ma l’ultimo giorno, durante la messa, si lasciò andare in un pianto dirotto. E quello, padre Pio, che sarà stato pure un santo ma aveva un caratteraccio, interruppe la celebrazione e la cazziò davanti a tutti.
«Ma insomma, donna! Di che ti lamenti? Cosa pretendi?»
Lei rispose convinta: la salute.
«E l’avrai», sentenziò quello seccato, per poi riprendere da dove si era interrotto.
E io non so veramente come raccontare quanto accadde dopo se non così: dapprima fu il turno dell’appetito, poi quello della salute. Non solo era guarita dal tumore nel giro di qualche giorno, ma erano spariti tutti i vistosi segni dei mesi di radioterapia. Ci fu un conclave di medici che si passarono la lastra di mano in mano, gridando al miracolo. Luminari di mezza Sicilia erano pronti a studiare il suo caso, ma lei li lasciò tutti a bocca aperta perché aveva solo voglia di fare quattro passi sottobraccio con il marito e fermarsi a mangiare qualcosa.

C’è da dire che nonna Pina non era grassa, forse appena paffutella ma non grassa. Eppure ho quasi solo ricordi di lei mentre mangiava. Di tutto un po’ senza esagerare, era il suo motto. E di tutto un po’ si mangiava. Da bravo, passami quella ricottina. C’è mezzo bicchiere di vino? L’insalata l’hai condita? Visse altre quattro decadi senza mai più aver avuto neanche un accenno di acciacco fisico; mai un mal di testa o un raffreddore. Se ne andò a ottantasette anni perché il cervello la mollò, fosse stato per lei avrebbe continuato a mangiare.
È stata l’ultima nonna. L’unica che io ricordi a dire il vero.
Sì, c’era nonna Maria, ma mi dava dei pizzichi dolorosi sulle guance quando mi vedeva, e poi era troppo cupa. Morì che avevo quattro anni. E morì che era proprio la vigilia di Natale.

Mia madre la trovò accasciata in bagno, stroncata da un infarto mentre era alle prese con un bisogno qualsiasi. Che morte di merda, diremmo (sì, lo so che questa non faceva ridere).
E io ci scherzo ma non riesco nemmeno a immaginare quanto sia stato duro per lei. Per anni rimanemmo alla larga da Palermo, soprattutto durante le festività. Perché non c’era più nulla da festeggiare, non lì almeno. Quasi volesse preservare un ricordo d’infanzia; come se la radice del suo dolore non fosse il ricordo di un triste Natale, ma il nome di una città in cui si nasce o si muore.
E anzi, forse ancor più precisamente, il fatto stesso di nascere per poi morire.
Ad ogni modo, grazie a questa piccola bugia, continuammo a festeggiare il Natale, ma sempre e solo a Roma, dove in tutto segreto nostra madre costruì la sua piccola idea di felicità. E la difese, a suon di addobbi, anno dopo anno. E allora giù di presepi, di alberi e campanellini d’orati.
Ché il Natale vero è solo quello con Paolo, Giorgio e Dario.

 

Dunque il Natale: che volete che vi dica?
Sì, era bello stare insieme: i regali, il cenone, eccetera, eccetera, eccetera. Insomma la felicità di un bambino qualsiasi.
Prima che la vita, Natale dopo Natale, ti si trasformi tra le mani e scivoli via dalle dita con quel carico di piccole gioie, inutili quotidianità e sacri dolori da custodire dentro.
E adesso non mi va di raccontare della morte di Paolo. Posso solo dire che io ero abbastanza grande – ma non troppo -, e che mio fratello scelse di andarsene di martedì sera. Quasi sentisse il bisogno d’insegnarmi che la vita può cambiare da un momento all’altro, quando stai per metterti a letto e suggellare una giornata qualsiasi.
Un po’ lo odiai per questo. Ma fu una grande lezione, devo ammetterlo.
A marzo fanno quindici anni che se n’è andato. E, sapete, non penso ci sia molto da dire al riguardo. Chi non c’è più da tanto tempo ormai riposa in pace, è palese. Il problema, semmai ci fosse, avrebbe più a che fare con chi resta.
Comunque le cose, da allora, cambiarono; fu inevitabile. E, per ironia della vita, cambiarono soprattutto a Natale. Chi glielo diceva a una donna siciliana, cresciuta nella patria del culto del dolore, tradita nell’esistenza, di vestirsi a festa e mettersi a sfornare anelletti al forno?
Cosa, di preciso, avrebbe avuto da festeggiare?
Allora via il presepe, via l’albero, via i campanellini d’orati.
E ora vorrei che questa fosse una storia in tutto e per tutto, con cambi di direzione, colpi di scena e quant’altro. Lo vorrei davvero, soprattutto perché ha a che fare con la mia di storia. Dunque non so se possiamo chiamarlo terzo atto, ma accadde quanto segue. Ed è una vicenda molto dolce che prima o poi andava raccontata.

 

2004, neanche a dirlo: Natale.

Giù le pareti, via il parquet, avanti con una macchina nuova e una cucina più spaziosa.
Perché la vita va avanti comunque: che uno lo voglia o meno.
Lo capì per prima anche Anna.

Anna è la mamma di una mia amica. E, detto così, immagino non dica molto.
Mettiamola in questo modo: ho due amici, si chiamano Alessandro e Paola, che conosco dall’infanzia ma le quali famiglie non si erano mai frequentate, almeno non con la mia. Si conoscevano, quello sì, ma ognuno andava per la loro.
Ecco, quando morì Paolo i genitori di Alessandro e Paola si avvicinarono molto ai miei. E a forza di stare insieme iniziarono a frequentarsi.
Così le loro madri ebbero l’idea, tanto semplice quanto geniale: «Anche noi siamo soli a Natale. Perché non stiamo insieme?»
Ognuno per un motivo o per l’altro si era senza parenti. Perché lontani, per un litigio, per… chi se ne frega il perché. La verità è che non c’era un vero motivo.
Questo era il segreto, non importava il perché.
Tre nuclei, dodici persone circa: insomma noi, senza convenevoli. Perché ci va, finché ci va. Quel Natale fu davvero bello, poi Anna insistette per rifarlo ancora, e ancora. Una Pasqua e un altro Natale.
E quando un tumore si portò via anche Anna, poverina, noi oramai eravamo diventati una famiglia.
E da allora non abbiamo più smesso.

C’è chi fa il dj e cerca un lavoro più stabile; chi l’attore e sogna il definitivo salto di qualità; chi invece ha iniziato a recitare in terza età; chi va verso i cento e fuma, mangia e beve come se ne avesse venti di anni; chi ogni Natale porta la compagna di turno e fa arrabbiare i figli; chi invece padre lo è da poco e non sa dove sbattere la testa; e infine chi ancora non ha capito che fare, e chi l’ha capito tardi e scrivere un racconto sul Natale gli sembra già tanto. Insomma, ognuno spera che quest’anno sia la volta buona per sé: per trovare lavoro, per non schiattare, per essere un buon padre, per diventare madre, famoso o quello che sia.
E tutti insieme ridiamo come matti, ci facciamo scherzi e regali stupidi: bambole gonfiabili, fotomontaggi, ciabatte usate, sampietrini, carta igienica… cose così.

Ci sentiamo a casa, siamo una casa. Con i difetti talmente evidenti da non dover far finta di nasconderli, da poterci ridere su assieme. Ognuno con il proprio sacro dolore, ma felici; quantomeno di restare uniti.
Sì, una casa, di quelle che le luci e il calore escono fuori dalla finestra. Le vedi dalla strada. Vicino ai lampioni, alla posta, alla banca. E agli snowbordisti che aspettano l’autobus.

 


24 dicembre 2018, ore 20.

A momenti arriveranno Paola, Alessandro e gli altri.
Mamma prepara le ultime cose fischiettando Sinatra, mentre Papà si affaccia per vedere se ci sono olive incustodite in giro. Da quest’anno è arrivata anche Maddalena, da quest’anno sono zio; e loro nonni. Li guardo come qualcosa che non ci sarà per sempre. Mi commuovo di nascosto.
Alle nostre spalle non c’è più il grande presepe ma un villaggio di Natale.
Lo trovo sempre brutto, per carità. Ma inizio a volergli bene. Mi ricorda come, per quanto sgangherate, le cose possano sempre avere un senso profondo, almeno finché restiamo insieme.
E comunque un presepe c’è ancora.
Meno grande di quello di un tempo; ma c’è. Certo siamo cresciuti per nascondere Starcom, Lego e altri pupazzetti nel presepe. Ma ancora oggi, con la dovuta attenzione, puoi scorgere un maiale ingropparsi una pecorella. E più in là, lontano dai riflettori, puoi starne certo, il cacciatore ha già puntato il fucile in direzione della stalla, aspettando il momento propizio per premere il grilletto.
Perché l’operazione Natale Segreto può iniziare.
Click.

 

 

 

P.S. (postfazione del dicembre 2019): quest’anno Enrico ha raggiunto Anna, quest’anno il Natale Segreto è dedicato a lui.